La storia di Giuditta che decapita Oloferne è contenuta nella Bibbia cristiano-cattolica ed è ambientata nella città di Betulia, assediata dal generale assiro (o babilonese) Oloferne. Giuditta, descritta come una vedova bella, ricca e giovane, si rivela essere, soprattutto, coraggiosa e dotata di spirito d’iniziativa e di grande forza fisica e morale. Servendosi del suo fascino e della sua astuzia, la donna inganna Oloferne, facendogli credere di voler tradire il suo popolo con l’intento di aiutarlo nella conquista di Gerusalemme e di Israele. Oloferne le crede e, convinto di poterla possedere carnalmente, si abbandona ai piaceri del vino e dell’ebbrezza, che si rivelano per lui fatali. Giuditta, infatti, approfittando dello stordimento del generale, lo decapita salvando se stessa e il suo popolo.
Artemisia Gentileschi nasce l’8 luglio del 1593 a Roma. Tra il 1612 e il 1627 dipinge diverse versioni della vicenda biblica di Giuditta e Oloferne, che è stata di grande ispirazione iconografica e letteraria, in particolare tra lɜ artistɜ del Seicento. Ci sono alcuni rilevanti punti in comune tra la vita di Artemisia e quella di Giuditta, primo fra tutti un temperamento forte e resistente alla cultura patriarcale di cui la Bibbia e le sue vicende si fanno portavoce, e fortemente pervasiva nell’Italia del Seicento.
Figlia del pittore Orazio Gentileschi, Artemisia è l’unica tra la prole di Orazio a manifestare un forte talento nell’uso dei colori e nella pittura, in un tempo in cui era vietata la carriera artistica alle donne. Entusiasta del talento di sua figlia, Orazio affida al pittore Agostino Tassi il compito di insegnarle l’uso della prospettiva, ignaro del fatto che il suo amico avesse stuprato Artemisia poco tempo prima. La talentuosa pittrice è, così, costretta a passare molto tempo col suo stupratore, che la sottopone a minacce e a nuove violenze sessuali.
Gentileschi, A., “Giuditta che decapita Oloferne”, 1612-1613
Artemisia dipinge il suo primo “Giuditta che decapita Oloferne” (1612-1613) come alla ricerca di una catarsi. Tramite la storia di Giuditta, Artemisia riscrive la propria, illustrando come avrebbe voluto che andasse. A riprova della nota autobiografica dell’opera, il fatto che il volto di Giuditta sia un autoritratto di Artemisia -com’era solita fare nelle sue opere- e che su quello di Oloferne si leggano i tratti della fisionomia di Tassi.
Il quadro trasmette il dinamismo dell’azione, grazie alla composizione delle tre figure, al modo in cui sono intrecciate, e all’ampio uso di un colore rosso “in movimento” che, dall’abito di Abra, invita lo sguardo di chi osserva a scendere verso il basso seguendo la direzione della scimitarra impugnata dalla protagonista, giungendo nei fiotti di sangue di Oloferne che colano verso il basso del letto, quasi decorandolo. Giuditta-Artemisia non subisce, agisce. Un punto in comune che rinveniamo tra Giuditta e Artemisia è il desiderio di eliminare l’oppressore. Decapitare Oloferne è uccidere l’invasore: per Giuditta, colui che aveva invaso la sua terra; per Artemisia, colui che aveva invaso il suo corpo. L’atto del tagliare la testa, sottolinea il desiderio di cancellazione: privare qualcunə del suo volto è privarlo della sua identità.
Artemisia dipinge, inoltre, la sorellanza. Rivisitando la leggenda biblica, Gentileschi inserisce accanto alla figura di Giuditta l’ancella Abra, in veste di sorella, compagna, complice: la spalla che Tuzia -che viveva presso la famiglia Gentileschi- non è stata, favorendo con la sua omertà il primo degli innumerevoli stupri agiti da Tassi sulla pittrice.
L’intimità fra Giuditta e Abra è centrale nell’iconografia della vicenda biblica di Artemisia Gentileschi, in particolare nelle sue rappresentazioni del momento appena successivo alla decapitazione. In “Giuditta con la sua ancella” (1618-1619) i due corpi si fanno più vicini; Giuditta (anche qui nelle sembianze di Artemisia) ha un atteggiamento preoccupato dal pericolo di essere scoperte, ma fiero, sottolineato dalla gestualità sicura e dominante con cui impugna la scimitarra. Abra tiene, poggiato su un fianco, un cesto di frutta contenente la testa di Oloferne, de-umanizzato. Giuditta poggia una mano sulla sua spalla, un gesto di cura e protezione che si pone in opposizione alla violenza della decapitazione appena compiuta.
Gentileschi, A., “Giuditta con la sua ancella”, 1618-1619
Femminista già prima dell’avvento del femminismo, oggi celebriamo Artemisia Gentileschi come esempio di protofemminismo. Pittrice egregia, è la prima donna nella storia dell’arte a entrare in Accademia aprendo, così, alle donne l’accesso alla carriera artistica. Con il suo talento e una personalità che si muove contro la corrente di una società dominata dagli uomini -nello spazio pubblico e nello spazio dell’arte-, Artemisia lotta per vivere una vita libera dalle imposizioni di una società patriarcale che ha tentato in tutti i modi di schiacciarla, e ci lascia un’eredità artistica in cui è lei la protagonista, e noi con lei.
[Luisa La Gioia]
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