Interruzione volontaria di gravidanza (IVG): a che punto siamo.


Texas, sud-ovest degli Stati Uniti, anno domini 2021. Notizia di poche ore fa: ha fatto un balzo indietro di qualche decennio circa, alla faccia di Marty McFly e della sua combriccola.

Casus Belli? L’aborto, reso praticamente impossibile o comunque difficilmente praticabile. La legge emanata, infatti, chiamata anche “Heartbeat bill”, vieta l’aborto dopo le prime sei settimane di gravidanza, quando si suppone si sia già formato il cuore. Se, poi, consideriamo che la maggior parte delle donne non è neanche consapevole di essere incinta nelle prime sei settimane…

Qui da noi in tanti si sono, ovviamente, indignati.

L’indignazione, qui, dilaga per qualsiasi cosa tranne che per ciò che è ingiusto in patria.

“Vergogna, shame on you, provvedimento altamente lesivo dei diritti delle donne!”.

Ma qui? Come siamo messi nel nostro perbenissimo Belpaese?
Sappiamo, innanzitutto, che fino a 43 anni fa una donna – qualora avesse deciso di non voler dare vita – aveva come unica via di uscita l’aiuto delle cosiddette “mammare”, con conseguenze spesso gravissime, se non tragiche.


Facciamo un passo indietro, cercando di comprendere la storia giuridica dell’aborto nel nostro paese.

Innanzitutto, fino al ‘78 l’interruzione volontaria di gravidanza veniva regolata dal Codice penale e considerata, pertanto, reato.

Tante donne, spesso militanti in associazioni femministe, come Emma Bonino, sono incorse in pesanti sanzioni penali, proprio in questi anni, nel tentativo di aiutare molte donne ad affrancarsi da gravidanze indesiderate.

Tra gli anni ’50 e ’60 gli aborti clandestini ammontarono a circa un milione, eseguiti dalle succitate “mammare” o da medici e infermieri compiacenti.

Immaginatevi, ora, una donna sposata, con quattro, cinque o anche solo un figlio e un marito che non ne vuole sapere di avere rapporti protetti, che si ritrova ad affrontare l’ennesima gravidanza, senza che anche lei lo voglia, senza che lei lo abbia deciso.

Oppure immaginatevi una donna più o meno ventenne o anche trentenne o anche più in là con l’età, che rimaneva incinta e semplicemente non lo voleva.

Non lo voleva per mille motivi che non ci interessano, perché ciascun motivo poi finisce per avere una propria dignità che non necessita di permessi o giustificazioni.

Immaginatevi queste donne dover portare per forza all’epoca una gravidanza che non volevano, far nascere per forza e con la forza un figlio che non volevano.

In alternativa, c’erano gli aborti clandestini e gli enormi pericoli che ne derivavano.

Per questi motivi la società civile tutta tra gli anni ’60 e ’70  iniziò a muoversi, come un fiume in piena.


Nel ‘73 il socialista Loris Fortuna fu il primo firmatario del disegno di legge sull’aborto alla Camera dei deputati, mentre la deputata Adriana Seroni si fece promotrice del problema sociale e della mancanza di una seria campagna contraccettiva.

Tuttavia, mentre il dibattito continuò ad essere affrontato e condotto in modo approfondito da ambienti femministi al grido di “Il corpo è mio e decido io!“, il dibattito pubblico sulla questione finì col diventare un po’ stantio e ripetitivo .

A rintuzzarlo ci pensò la Corte costituzionale nel ‘75, con una sentenza che introdusse il principio secondo il quale il diritto alla salute e alla vita di “chi è già persona” e quello di “chi persona deve ancora diventare” non sono equivalenti.

Nel ‘78 l’approvazione della legge.

Nell’‘81 il referendum, tra i più sofferti della storia del Paese.

Il risultato fu la legge 194.


E tutti vissero felici e contenti?  Assolutamente NO.

Sempre nel dettato normativo del ’78, all’art. 9, veniva prevista l’obiezione di coscienza.

La normativa, ovviamente, “pur garantendo al personale medico obiettore il diritto di rifiutare di determinare l’aborto non lo autorizza ad omettere di prestare assistenza prima o successivamente ai fatti causati dell’aborto, in quanto deve assicurare la tutela alla salute della donna”.

In sostanza ed in realtà tantissimi medici sono obiettori.

Le percentuali attualmente sono abbastanza chiare: gli obiettori di coscienza a Bolzano sono l’87%, in Molise addirittura il 92%, nel Sud-Italia circa il 66% degli anestesisti sono obiettori di coscienza.

Ma, tralasciando le aule parlamentari e le statistiche, la realtà quotidiana è ben altra, fatta di persone in carne e ossa.

R. ha abortito a 20 anni, senza alcun problema.

Le è bastata una visita dal medico di base per essere indirizzata nella clinica dove avrebbe abortito.

Senza troppe rogne o troppe grane burocratiche. Con lei “solo” tanta tristezza.

T., invece, si è resa conto tardi di essere rimasta incinta, ha contattato il suo ginecologo per capire come muoversi ma, dichiaratosi obiettore, se ne è lavato le mani.

Chiedendo ad un’amica ha poi ottenuto il contatto di un ginecologo non obiettore di un paese poco più lontano da casa.

Intervento fissato una settimana dopo.

Incinta di tre mesi e mezzo. “Col rotto della cuffia”, verrebbe da dire.

Tante abortiscono nel giro di mezza giornata, ad altre spetta una trafila un po’ più lunga, addirittura viaggi interregionali, nel tentativo di riuscirci il prima possibile, con l’ansia, i problemi, le preoccupazioni.

“Perché un figlio non lo volevo proprio. Se non avessi trovato il modo, mi sarei lanciata dalle scale”. Un'altra donna, invece, non aveva i mezzi e i supporti per crescere un figlio, specialmente i supporti che, no, non sono sempre solo economici.


Per questo motivo, ogni volta che si sente parlare di aborto – da parte di uomini, poi – mi viene da pensare a quei banchieri panciuti, con i baffi grossi all’insù, ritratti nelle locandine di inizio secolo scorso, intenti a edulcorare la popolazione sul come andare avanti e sui massimi sistemi economici, mentre la maggior parte del mondo pativa la fame o cercava disperatamente un lavoro.

Esistono diritti che sono di genere.

È il caso dell’aborto.

Tu, obiettore per motivi etici o religiosi o, peggio che andar di notte, per mere questioni di carriera, stai privando un essere umano del diritto di autodeterminarsi, di decidere del proprio corpo in modo sano, giusto e ragionevole.


SHAME ON YOU.


[Ilenia Liguori ]




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