Di passaggio, anonime, intercambiabili, sporchissime seppur continuamente ripulite, le stazioni ferroviarie sono l’esempio perfetto di non-luogo.
Marc Augè, antropologo francese studioso del sovra modernismo, coniò questo termine, che oggi ci aiuta a dare un nome a quel senso di inadeguatezza che proviamo aspettando il treno.
La maggior parte delle stazioni, invece, un nome non nemmeno ce l’ha, se si esclude “Centrale”. Talvolta ereditano quello dei quartieri, come Firenze Campo di Marte, Milano Rogoredo, Roma Tiburtina, Milano Porta Garibaldi. Cosa che non accadrebbe mai per un ospedale o una scuola, posti anch’essi di passaggio, ma sempre intitolati a qualcuno: santi, medici, scienziati, statisti, etc. E comunque ad avere un nome sono sempre le stazioni secondarie. Unico vantaggio di essere le numero 2.
Nelle stazioni siamo sempre provvisori, transitori, passeggeri appunto. Ci si potrebbe passare tutti i giorni e stupirsi di riconoscere qualcuno che si conosce al di fuori della stazione stessa: “anche tu qui?”. Marc Augè dice appunto che i non-luoghi sono piene di persone simili, ma inevitabilmente sole. Le similitudini sono così lampanti che potrebbero portare a individuare dei gruppi, ben delineabili in base a come si vestono, a come si muovono, a come si atteggiano: chi viaggia spesso, ad esempio, ha la faccia annoiata dall’ingegnerizzazione del processo di partenza-arrivo, chi viaggia raramente, invece, è visibilmente in ansia: teme i borseggiatori, o di perdere il treno, o di dimenticare qualcosa…
Non importa che siano grandi stazioni di città, o stazioncine di paese, restano non-luoghi.
Certo, quelle grandi sono mastodontiche ed accerchiano un groviglio inestricabile di binari, hanno al loro interno i negozi monomarca dei brand alla moda, e i bar dove si fa prima lo scontrino. Quelle piccole invece hanno un bar triste, l’edicola che vende i biglietti a kilometraggio, e la cabina puzzolente per fare le fototessere.
Nelle stazioni, noi non esistiamo, non abbiamo un nome, nessuno ci conosce, nessuno sa perché siamo lì, se stiamo arrivando, o se stiamo partendo, se stiamo aspettando qualcuno che arriva, o se c’è qualcuno che ci sta aspettando.
Ma questo non vale solo per noi, passeggeri in un non-luogo, ma anche per le molte persone che nelle stazioni ci vivono e che, sotto a un mucchio di coperte e cartoni, ci dormono. Anche di loro nessuno sa perché siano lì: la città è enorme perché proprio la stazione?
Nessuno li conosce. Non hanno un nome. Fingiamo che non esistano.
Qualcuno vorrebbe che la “rigenerazione urbana partisse anche dalle stazioni” e che l’architettura della nuova mobilità (nome di un convegno sul tema, tenutosi a Milano Centrale nel Novembre 2019) renda le città più belle e sicure. Ma l’inversione di rotta sembra lontana: aprire negozi e ristoranti, per frettolosi avventori, non renderà le stazioni meno di passaggio, e farle sorvegliare da militari col fucile non le renderà più familiari, soprattutto agli occhi di chi non ha alcun treno su cui salire o da cui scendere.
A Roma Tiburtina hanno messo un pianoforte al piano per accedere ai binari.
Non lo suona mai nessuno, ed è strano, perché sembra impossibile che non passi mai nessuno che lo sappia suonare. Ma perché suonare per un pubblico di persone che non esistono?
[Marco Terribili]
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