Il coltello scivolava nella carne come fosse burro, la cottura era perfetta, nessuna traccia di sangue nel piatto, proprio come piaceva a lei, non era nemmeno bruciata.
‘Cazzo, un’altra volta.’
Quando la punta della lama aveva toccato la ceramica blu, era troppo tardi per tornare indietro, la mente di Celeste aveva deciso di abbassare di nuovo le serrande, e così di lì a poco, avrebbe fatto anche lei.
Ultimamente le capitava più spesso di quanto potesse controllare, che poi in realtà non sarebbe riuscita a controllare questa cosa nemmeno se avesse avuto la stessa cadenza del suo ciclo, e a dirla tutta, anche quello andava per i fatti suoi.
Se chiedevi in giro, Celeste, c’era una sola parola per descriverla, anzi due: sempre sorridente. Celeste era sempre sorridente.
La difficoltà del finto sorriso era scomparsa ormai da qualche anno, e pure il dolore dello sforzo muscolare, sorridere per finta poteva risultare davvero faticoso per le mascelle ma non per quelle di Celeste. Celeste aveva una sola difficoltà in quei momenti: attraversare la luce. Quando la sua mente decideva di oscurarsi, i suoi occhi cercavano inevitabilmente il buio mentre il corpo la spingeva verso il letto. Teneva gli occhi così chiusi che dallo sforzo stringeva anche i denti, non avrebbe permesso ad un singolo raggio di luce di entrare attraverso le coperte, che in genere le teneva tirate su fin sopra ai capelli.
E in un battito di ciglia era a Firenze, la sua città del cuore, riusciva a sentire la guida dalla radio dei turisti mentre si muovevano a passo svelto nella Galleria degli Uffizi, e lei invece era ferma davanti ad un quadro per ore, sorridendo all’idea che qualcuno potesse concepire un pomeriggio al Museo come una semplice passeggiata. Lì dentro lei soffriva solo di una cosa, della sindrome di Stendhal, che poi per lei chiamarla sindrome era proprio un eufemismo, quello era più amore, amore e basta.
‘Cazzo, un’altra volta.’ Ma forse quella volta, questa volta non era troppo tardi.
“Io parto, vado a Firenze, oggi faccio i biglietti.” Aveva lasciato la carne lì, e si era diretta come sempre in camera sua, ma niente buio, le serrande erano aperte, e anche gli occhi. Li avrebbe chiusi in treno, così li avrebbe riaperti al momento giusto.
Quelle strane radioline erano proprio come la sua mente gliele ricordava sempre, dalle cuffiette si sentiva ogni parola della guida. Solo lui non le aveva, stava fermo davanti alla Primavera, possibile che la stesse fissando?
“Soffri anche tu della sindrome di Stendhal o hai dimenticato di prendere le cuffiette all’entrata?”
“Perché innamorarsi di un quadro è davvero una sindrome signorina – anche tu – senza cuffiette?”
“Piacere, Celeste” e i muscoli stavolta sorridevano per davvero.
[Raffaella Di Sario]
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