Donne, madri e lavoro


Laura ha trent’anni, convive da poco con Alessandro e lavora per una importante azienda privata, una multinazionale farmaceutica, che le offre grandi opportunità lavorative.

Vorrebbe avere un bambino, guadagna bene, oltretutto ha ottenuto da poco una promozione, pensa spesso tra sé e sé: ‘’Se non ora, quando?!’’.

Dice di sentirsi pronta.

Così rimane incinta della piccola Nina.

È ovviamente un po’ spaventata per il suo lavoro.

Sa bene che la normativa in vigore prevede l’astensione dal lavoro a partire dai due mesi precedenti la data presunta del parto.

In questo caso, si può con certificazione medica continuare a lavorare fino a trenta giorni prima del parto. Terminati i mesi di congedo obbligatorio, ha diritto ad alcune ore per l’allattamento.

Tutto chiaro.

Laura lo sa, conosce bene la legge, perciò, pur di allattare per più tempo possibile, lavora fino all’ottavo mese rientrando, così, a lavoro quando la piccola Nina ha quattro mesi.

La politica aziendale è, però, nel frattempo cambiata: non è tornata al suo posto, anzi, è stata demansionata, sentendosi letteralmente “congelata“ dal sistema aziendale.

Una scusa si trova sempre di modo che, chi è una spanna sopra di lei, risulta essere sempre in qualche modo inattaccabile.

Il punto è che da un’ottica ufficiale non emerge nessun problema: cinque mesi obbligatori di maternità pagata all‘80% dall’INPS, con integrazioni aziendali del 20%, ferie maturate e annessi vari; senza contare le richieste di congedo parentale spettanti ai genitori nei primi dodici anni di vita del bambino, per un periodo complessivo non superiore ai dieci mesi, a cui l’INPS corrisponde un’indennità pari al 30%.

La vita, però, è un tantino diversa, non è uno schema dell’INPS o un calcolo aziendale.

La vita di Laura è, in realtà, molto più complicata e pressante, scandita da scadenze, pensieri ed esigenze per la sua famiglia e per se stessa.

In primo luogo, a chi affidare la bambina una volta ritornata a lavoro?

Qualcuno le suggerirebbe – per questo motivo – il nido comunale, ma la realtà è che non è così facile accedervi, esistono delle prerogative e delle graduatorie per cui non sempre riesce facile iscrivere un bambino alla modica cifra di 300 euro al mese.

Senza contare altri costi, non solo del nido, ma anche di una babysitter che stia col piccolo nel pomeriggio quando si sta ancora lavorando.

Laura si ritrova, cosi, a soli quattro mesi dal parto con una bambina che ha bisogno delle sue cure, con una vita capovolta perché, sì, la maternità stravolge i pensieri e le sensazioni di una donna, non solo in positivo, ma anche in negativo.

Si ritrova a combattere contro un’azienda che non la vede più, che non la considera più, contro i suoi stessi sentimenti contrastanti, costantemente in bilico tra l’amore viscerale per la figlia e la nostalgia per la vita di prima.

Le mancano i ‘’privilegi“ di prima.

Le fa rabbia il solo fatto di non averne.

Ma non può dirlo ad alta voce, non sia mai una donna o una madre possa anche solo pensarla una cosa del genere.

Riflette spesso sul fatto che il problema più grande per una mamma lavoratrice da un punto di vista pratico, ad oggi, risulta essere il nido, trovare un posto adeguato e vicino che possa farle risparmiare tempo, denaro e pensieri.

Diventa un pensiero ossessivo quello di far quadrare i conti e far star bene la piccola.

Le viene da chiedersi: “Ma per quale motivo un’azienda privata non dispone di un nido al suo interno? Perché non viene previsto per legge l’inserimento di un nido all’interno di strutture sia pubbliche che private?”. Così che una neomamma non si ritrovi a non poter allattare e a dover pagare un extra (considerevole a fine mese) ad una babysitter.

Cosa succede, invece, a chi lavora da libera professionista? A chi vive di partita IVA?

Beh, la dura verità, secondo Alessia, architetta trentatreenne e con uno studio personale aperto da pochi anni, è che a chi vive di partita IVA e decide di diventare mamma, non spetta proprio nulla.

 

Alessia risulta anche meno privilegiata di Laura: non gode di rimborsi, né tantomeno di assegni familiari.

Fortuna che il marito – almeno – è dipendente, almeno a lui l’assegno spetta.

Ma, per tutto ciò che riguarda il resto? La babysitter non è contemplata, i nonni saranno per questo una risorsa fondamentale.

Per allattare come farà? Rinuncerà, probabilmente, alla commessa di un cantiere importante o a qualche collaborazione che le occupa più tempo.

La verità, la dura verità è che una donna da poco diventata madre sul posto di lavoro viene considerata meno, un elemento sensibile che va maneggiato con cura, se dipendente, onde evitare grane giuridiche.

Ma, se libera professionista, è come se non esistesse proprio nel variegato e fantastico mondo della maternità abbinato al lavoro.

Nel caso di Laura, dopo un anno di lavoro demansionato ha deciso di rassegnare le dimissioni ed è stata assunta da un'altra azienda, all’interno della quale spera di crescere come vuole e come pensa di meritare; desidererebbe un altro figlio dopo Nina, ma la paura di rivivere ciò che ha vissuto durante il precedente lavoro è troppa. Così, desiste, alla faccia della crisi della natalità e all’ipocrisia di chi se ne lamenta pure.

Senza voler fare sempre e per forza del comparativismo con altri Paesi perché, poi, alla fine, le rogne in merito sono un po’ ovunque, risulta veramente così difficile nel 2021 concepire delle soluzioni più giuste ed eque e a misura di donna? Cercare, provare ad agevolare, in qualche modo, la vita di una donna non solo in termini economici ma anche in termini psicologici e pratici.

Va tenuto presente, sempre, che qualora una donna decida di sacrificare la propria vita professionale per amore del proprio bambino, perché lo desidera, perché sente di volerlo crescere h24, è una donna libera, che ha scelto consapevolmente la propria strada.

La stessa donna che prende la decisione di troncare un rapporto di lavoro perché costretta da un sistema che non sa che pesci prendere quando si tratta di maternità, non è una donna libera.

Ma una donna in qualche modo privata di quello che è un suo sacrosanto diritto: l’autodeterminazione ad essere ciò che sente di voler essere.

 

[Ilenia Liguori]



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