“Mio fratello è stato assunto a tempo indeterminato, finalmente lo vedrò tornare a sorridere”. Questo è il messaggio che mi ha inviato Paola pochi giorni fa. Senza scomodare necessariamente Marx ed Engels è chiaro come la luce del sole che, quando si parla di giovani e lavoro, ci sia qualcosa che non torna o che non funziona nel nostro Paese. Il precariato è divenuto lo status quo, la regola, per buona parte dei ragazzi sotto i 35 anni. Liquidare, però, il discorso in questo modo risulterebbe inutilmente fuorviante oltre che poco risolutivo.
Le forme di contratto di lavoro che contribuiscono a generare il precariato sono moltissime: si va dal lavoro stagionale al lavoro a tempo determinato passando attraverso il fenomeno delle partite IVA fino al fantasmagorico sistema dei voucher. Sono ovviamente tutte forme contrattuali perfettamente legali che nascono proprio per coprire esigenze specifiche, ma che finiscono inevitabilmente per essere abusate illecitamente. Il legislatore predispone mezzi per aiutare il datore di lavoro a coprire temporanee carenze di organico attraverso strumenti flessibili e idonei a contrastare il fenomeno del lavoro nero.
Nonostante ciò, a dispetto dei doveri imposti dal sistema tributario, molte di queste tipologie contrattuali finiscono per essere utilizzate per eludere gli adempimenti fiscali. A voler essere ulteriormente precisi, un ruolo determinante nella stabilizzazione del personale precario è stato giocato dai Tribunali ai quali molto spesso hanno fatto ricorso tante categorie di lavoratori per ottenere il riconoscimento dei propri diritti. Un esempio è dato dai professionisti penalizzati dal blocco reiterato delle assunzioni oppure dai lavoratori ai quali è stato rinnovato per decenni un contratto di lavoro a termine: il contratto di lavoro a tempo determinato è soggetto a un termine perché risponde a esigenze transitorie del datore di lavoro. Se queste esigenze si protraggono nel tempo e il numero dei rinnovi diventa incompatibile con il carattere provvisorio del rapporto di lavoro, allora si sta abusando di questo contratto. Le soluzioni vanno dal risarcimento del danno al diritto a essere assunto a tempo indeterminato. Senza contare l’enorme fetta di giovani lavoratori “in nero”: aspiranti professionisti costretti a paghe miserevoli per anni in nome di un apprendistato che finisce per durare molto più del normale.
Camerieri sfruttati per pochi spicci l’ora, anche dodici ore al giorno.
Parrucchieri.
Estetiste.
Commesse.
Senza contare i giovani imprenditori.
‘’Dio li protegga e assista’’ perché il loro cammino è lastricato di tasse, partite IVA e poche, pochissime garanzie. L’elenco, volendo continuare, sarebbe lunghissimo. In quanti ci siamo passati almeno una volta per un lavoro non adeguatamente retribuito e “a nero”? Non sono necessari schemi o statistiche, è un problema così diffuso e comune da esser diventato consuetudine. Le conseguenze sono svariate: il precariato e il lavoro nero costringono giovani donne e giovani uomini a non comprar casa, a vivere ancora con i propri genitori, a non costruire una propria indipendenza, a non ricevere in futuro un’adeguata protezione pensionistica. Senza contare il risvolto psicologico. La frase riportata ad inizio testo non è l’incipit di una sceneggiatura, ma lo sfogo di una ragazza, una sorella, che ha visto suo fratello non lavorare per anni, con ripercussioni pesanti, pesantissime, sulla sua vita personale. Se il genio di Cormac McCarthy sintetizzava il conflitto generazionale tra le pagine del romanzo “Non è un paese per vecchi“, oggi potremmo ribaltarne il titolo in quanto il nostro non è un paese per giovani.
Ilenia Liguori
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