Lentamente costruire, il tempo di uno chef.


Se dovessimo descrivere la sua cucina con una parola o forse ancora meglio, se dovesse descriverla lui, quella parola sarebbe: fluidità.

Oggigiorno ci è capitato di sentirla spesso, legata di sicuro ad argomenti di grande attualità, ma davvero pensiamo che la cucina non possa essere fluida?

Abbiamo fatto due chiacchiere con Salvatore Giugliano, classe 1991, chef e proprietario del famoso Mimì alla Ferrovia, icona della storia culinaria partenopea sin dal 1943, per capire quanto certi percorsi siano naturalmente destinati a confluire.

 

La sua è una storia eclettica, avvincente e ben radicata allo stesso tempo, la perfetta fusione tra valori e curiosità, che l’hanno portato a ritagliarsi il suo posto nel panorama gastronomico italiano.

Nato all’ombra del Vesuvio, spalle larghe e sorriso verace, specialmente quando racconta come è nata e si è sviluppata la sua passione per la cucina. 

Sasà, come lo chiamano tutti da queste parti, ha mosso i primi passi nel mondo della ristorazione tra le mura di Mimì, spinto dal desiderio di conoscere, comprendere ed accogliere non sono l’eredità della sua famiglia, suo padre Michele detto “Don Mimì” e l’omonimo zio infatti gestiscono uno di quei ristoranti in cui si respira la vera napoletanità, ma soprattutto la sua “vocazione” ai fornelli, sviluppatasi nel tempo in maniera totalmente naturale proprio come ci ha raccontato lui stesso.

 

 

Ciao Sasà, ti va di raccontarci quando e come hai scoperto che la cucina era la tua affinità elettiva?

 

Posso dire di aver imparato a conoscere gli utensili da cucina e l’importanza della materia prima nella creazione di un piatto, ancor prima della Bic alle elementari, ma più che uno chef in fasce ero semplicemente un bambino desideroso di conoscere le proprie radici, i propri legami prima di iniziare a muovere i propri passi. Il mio è stato quasi un percorso spirituale più che accademico, ho lasciato che le sensazioni confluissero, ci ho messo il rispetto, la costanza e la pazienza e piano piano ogni cosa ha raggiunto il proprio spazio.

Dopo aver iniziato come commis di cucina (ndr aiuto cuoco), una volta terminati gli studi, ho deciso di intraprendere un viaggio individuale per creare la mia struttura senza imposizioni, ma con estrema naturalezza.

La prima esperienza in una cucina lontana “da casa”, è stata quella con Paolo Barrale nella sua brigata di Marennà, il quale mi ha accolto dandomi la possibilità di apprendere quelle tecniche innovative e contemporanee all’epoca a me sconosciute e soprattutto insegnandomi a riconoscere il valore del tempo e dell’equilibrio in cucina. Dopo quell’esperienza sono arrivato ai “Quattro Passi”, altro ristorante di spessore situato a Massa Lubrense ed è proprio in quei mesi trascorsi tra il reparto “secondi piatti” ed i ricevimenti organizzati a Villa Eliana che ho avuto la mia illuminazione. Mi sono ritrovato improvvisamente a tradurre le aspettative in responsabilità, ho sperimentato la potenza dell’adrenalina ed ho capito che la cucina e tutti i satelliti che le ruotano attorno, erano il mio posto.

 

La tua cucina è un colorato mix di contaminazioni e reinterpretazioni, da dove prendi l’ispirazione?


La mia forte curiosità mi ha spinto sin dall’adolescenza ad intraprendere percorsi inaspettati, come il mio viaggio in Giappone, una parentesi che ricordo con molto affetto e che ha rappresentato per me un punto di svolta, di crescita. Sono partito da solo, zaino in spalla e desiderio di avventura e quello stesso desiderio si è poi trasformato in una variegata enciclopedia che ha preso vita nei miei piatti.

Per me la cucina è una scelta romantica, che mi ha portato a scoprire e sostenere con tenacia l’importanza ed il valore del capitale umano. 

Tutto nasce mettendo insieme due idee, un elemento principale ed un piatto essenziale, ma con la sua identità. Sono cresciuto vivendo i “piatti di pazienza” tipici della tradizione gastronomica napoletana ed ho provato a rivisitarli secondo un mio personale percorso creativo fatto d’istinto e profondo rispetto nei confronti dell’essenza del piatto stesso. 

Da Mimì oggi puoi mangiare la genovese in un bao cotto al vapore, assaporandone l’identità e la genuinità, ma in chiave contemporanea ed è lì che il mio percorso trova la sua armonia. 


Come vivi quotidianamente il peso dell’eredità familiare?


La mia è una famiglia molto unità che nel tempo ha saputo costruire e raccogliere i frutti di sacrifici ed opportunità ed il mio ruolo ad oggi in quella che è l’azienda di famiglia è per me accompagnato in maniera quotidiana da grande senso di responsabilità. Mio padre e mio zio sono stati i primi a credere in me dandomi la possibilità di crearmi una struttura solida che mi permettesse di iniziare anche quel cambio generazionale che viviamo giorno per giorno tra le mura di Mimì alla Ferrovia, un percorso lento e non sempre sinuoso che porta con sé il peso ingombrante che vivo nell’essere il figlio di Michele Giugliano. Mio padre è sempre stato per me fonte di grandissima ispirazione per la sua tenacia e la capacità di interpretare al meglio e con il sorriso ogni situazione.

Da lì scaturisce il mio desiderio e la mia missione di rendere la mia cucina un momento di leggerezza e convivialità legato alla bellezza pura dello stare bene.


Sappiamo che sei un grande appassionato di musica, hai una canzone che ti accompagna nella creazione di un piatto?


La musica è per me una costante, posso dire che insieme alla cucina sono di sicuro i miei Italianismi.

Non ho delle preferenze statiche e ben definite, ma così come per l’intuizione ai fornelli, allo stesso modo la musica mi accompagna ogni giorno in maniera naturale ed avvolgente.

Sono particolarmente legato a Lucio Dalla, che mi piace definire un poeta normale, che ho avuto l’onore ed il grandissimo piacere di poter conoscere poiché legato da una bella amicizia proprio con mio padre. 

La sua musica ha segnato molti momenti importanti della mia vita con quell’intensità tipica di chi sa raccontare le cose vere.

Ed è proprio con una sua canzone che desidero salutarvi, una canzone che sapeva già tutto di me ancora prima di conoscermi: il Parco della Luna.


“Anch'io quante volte da bambino ho chiesto aiuto
Quante volte da solo mi sono perduto
Quante volte ho pianto e sono caduto.

Guardando le stelle ho chiesto di capire
Come entrare nel mondo dei grandi senza paura, paura di morire.”


[Roberta Iannacci]




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