C’è un uomo di fronte alla mia seduta che detta aggettivi per descrivere un evento da fare non so dove, probabilmente parla con la sua social media manager.
È un egittologo e lavoro in qualche museo del sud Italia. Gli piace e sente di essere nel posto giusto al momento giusto.
Come questo giornale, nato nel posto giusto al momento giusto ma come tutte le cose della mia vita non ha mai avuto una linearità.
Non è mai stato coerente.
Facciamo cronaca, no, facciamo gossip, non esiste. Mettiamo a valore le eccellenze italiane, i giovani, i posti magici della costiera, i pomodori e i cedri, le mattonelle di Vietri.
Ma non possiamo concentrarci solo sul sud. Milano, le mascherine 3D, l’industria della moda, l’inquinamento. E poi alla fine è venuto fuori che quello che si mischia è più ricco, meno circoscritto, sempre in movimento.
Io invece volevo solo scrivere d’amore, di relazioni, di come si sta insieme e di come queste poi vengono rappresentate -speranzosa e romantica, una mente sporca e alti standard, come descrivermi con pochi aggettivi- e volevo farlo a tutti i livelli, da quello scientifico a quello divulgativo.
Volevo che qualcuno leggesse di me. Volevo che qualcuno sapesse che esistessi.
Ho sempre desiderato scrivere in maniera impeccabile. Avete presente quei racconti da cui non riesci a staccare gli occhi, di quelli che non riesci a spegnere il lume sul comodino? Di quelli che ti svegli con l’ansia per finirli, e che si leggono a colazione, momento peggiore per aprire la mente ad un mondo ancora troppo concentrato a mostrarci le sue tragedie invece che accoglierci dopo il trauma freudiano del risveglio.
L’egittologo ancora parla e io pensavo di poter scrivere finalmente qualcosa di sensato. Un articolo. Finalmente. Avrei voluto fare la giornalista, mia madre me lo diceva sempre.
Sono sempre stata profondamente affascinata dal giornalismo ma non ho mai capito esattamente il senso. È verità di uno che diventa la verità di tutti? Un punto di vista? Una prospettiva? Ma che vuol dire fare giornalismo se uno è fascista, tipo?
Non lo so, lo trovo contraddittorio, ma affascinante sicuramente.
Ma no, non sarà un articolo, sarà l’ennesimo racconto di chi vive tra due mondi, di chi aspetta per tornare senza voler tornare mai.
Vivere tra due mondi è come avere due cuori, 4 braccia, 4 gambe, 4 occhi, 4 orecchie, due anime, mille paia di occhiali da sole, scarpe estive ed invernali nello stesso armadio.
Ancora non ho imparato a resistere al compulsivo sentimento dell’accumulo: ho bisogno di riempire infiniti vuoti, e le “cose” che compro hanno questa funzione.
Le cose che compro sono le carezze di mio padre, i baci di mamma, le mani di mia sorella, gli amori che non ho mai vissuto, le vite che mi sono sfuggite quando tutto poteva avere un senso diverso.
Eppure Gabriele Romagnoli nel suo libro “Solo bagaglio a mano” dice che dovremmo disfarci di tutto, che la Corea del Sud ha dei servizi di funerali finti per i suoi cittadini, coloro i quali vogliono sperimentare l’esperienza della leggerezza, del lasciare andare, della mancanza di possesso.
L’autore solleva anche un altro punto, l’oblio e la libertà che questo ci regala.
Gli vorrei chiedere cos’è la libertà poiché questa, quando esercitata, provoca sempre oppressione.
Che l’oblio sia libertà può in parte essere vero, ma solo se continuiamo a pensare alla libertà come qualcosa di estremamente egoistico. E alla fine lo è. Come le mie scelte, in parte. Perché si, andare via è un fatto che a che fare con noi stessi senza pensare al resto.
Non mi sono mai sentita libera come quando devo tornare a casa a New York. È una sensazione che non riesco a spiegare. Si muove tra le viscera, profuma di biscotti, mi fa venire il peggiore mal di pancia di sempre e poi mi scarica tra le nuvole, e mentre le mangio mi figuro il mio futuro.
Non mi sono mai sentita così libera di essere me, di essere capita, ascoltata, compresa.
A NY io non mi sono mai sentita fuori luogo, ma sempre a casa, la mia, quella che cercavo da tempo tra tutte le cose che ho comprato, costruito e distrutto.
Eppure sento questo senso di vuoto che si aggrappa al mio stomaco. Come i bambini al collo delle madri. Come le unghie dei gatti alle magliette di cotone.
Leggevo un meme rispetto alla società capitalista e performante, al fatto che dobbiamo fare sempre di più, dobbiamo desiderare sempre di più, dobbiamo essere sempre di più.
Ci dicono che andiamo bene così ma poi ci indicano quali prodotti comprare per far scomparire le nostre cicatrici, quanto dobbiamo bere per eliminare cellulite e pensieri, quanto dovremmo essere magre e belle per piacere ai maschi etero cis che vivono di immagini fatte di pixel e non più di ricordi reali.
Questo è il vuoto che sento. Che niente ha senso mentre tutto sembra ne abbia.
Che ci perdiamo nelle parole dolorose piuttosto che chiedersi scusa per essere state persone diverse, per aver abbracciato più l’idea di noi e di come dovremmo apparire che noi stessi.
Vivere tra due mondi mi ha liberata, ma mi ha resa così consapevole che a volte il dolore mi spinge a sparire. Io ghosto me stessa. E lo faccio perché sapere di dovermi dire che vado bene così è un pensiero ancora troppo remoto.
I sensi di colpa di quando vai via pesano più delle catene che ti tenevano in un posto che non era tuo, in una vita che non era destinata a te.
Vivere tra due mondi ti spacca, ti spoglia e ti mette a confronto con te stessa. Ti sbatte in faccia l’amore e la perdita, la capacità di restare e la facilità di andare via.
Vivere tra due mondi ti porta a scegliere, alla fine, il tuo stesso mondo, il mare o l’oceano, i bagels o i croissants, la carne fatta in laboratorio o gli hamburger di legumi.
Io non so ancora se andare via è codardia o speranza in un futuro migliore. Non so se è egoismo mischiato a privilegio o mancanza dell’ultimo e disperazione.
Non ho mai capito cosa spinge le persone ad andarsene ma ho capito cosa non le trattiene.
Ho capito che alla fine dei conti quello che ci aspettiamo -maledette aspettative- è qualcosa/qualcun* che ci trattenga.
Quando non hai niente, non hai niente da perdere. E allora io sono andata, sono diventata farfalla, con le ali che fanno spesso male e con la solitudine dei bachi da seta.
Sono andata per non tornare, per vedere la lotta continuare da lontano sperando di contribuire con quello che posso, che sono.
Io sono andata perché niente mi ha trattenuta, perché l’idea di ciò che sono e di quello che sarei potuta essere era più forte del pensiero di fare colazione a casa, ogni giorno, con il caffè pronto.
E forse proprio perché non bevo caffè, e perché non sono una giornalista, che alla fine non sarò mai famosa, non scriverò mai di cronaca e finirò la mia vita tra i diari dei miei ricordi d’amore. Perché tutto quello che ho imparato dal vivere tra due mondi è che il cuore è sempre un po’ spaccato a metà ma tutto il corpo, l’anima, i piedi, trovano un posto, il tuo.
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