Glossario di genere #2: dentro le parole dei media


Se “ciò che non si dice non esiste”, ciò che si dice riflette la società e la cultura in cui viviamo. Quest’ultima privilegia il senso della vista come canale percettivo dominante, ragione per cui, in questa seconda parte del glossario, abbiamo deciso di focalizzarci su alcuni vocaboli strettamente legati ai modi in cui – spesso inconsapevolmente – guardiamo. Nello specifico, i termini che abbiamo scelto si riferiscono alla rappresentazione dei corpi all’interno dei media che, nell’era digitale in cui ci troviamo, costruiscono buona parte dei nostri immaginari.


Male/female gaze

Il gaze, traducibile come “sguardo”, descrive come gli spettatori e le spettatrici interagiscono con i media visivi. Lo sguardo al quale siamo abituate/i è tipicamente maschile, da qui il termine male gaze, coniato dalla teorica, regista e critica femminista Laura Mulvey nel 1975. Lo “sguardo maschile” suggerisce un modo di guardare sessualizzato da parte della società patriarcale, in cui la donna è visivamente posizionata come oggetto del desiderio del maschio eterosessuale e cisgender. [1] Parlare di female gaze ad oggi è molto complesso. Dopo secoli e millenni di male gaze, a livello quantitativo la situazione è parecchio sbilanciata. In una masterclass sul female gaze, Jill Soloway ha lanciato una provocazione molto interessante dicendo che gli uomini per qualche anno dovrebbero fermarsi, non fare nulla e lasciare alle donne tutto lo spazio produttivo. Conclude affermando che, magari, scrivendo/producendo/dirigendo le donne stesse i propri film, avrebbero più possibilità di riappropriarsi, in tempi leggermente meno biblici, del proprio sguardo. Per parlare di female gaze, per Soloway, non basta ribaltare il male gaze. È necessario che ci siano tre elementi: 1. la visione dei sentimenti, inquadrature in cui l’obiettivo risieda nell’approfondimento delle emozioni dei personaggi rendendo le azioni subalterne e utilizzando il corpo come un traspositore di emozioni; 2. la macchina da presa deve rivelare al pubblico come ci si sente a essere guardate come oggetti di piacere; 3. una sfida a ricambiare lo sguardo. Non si parla qui esclusivamente di sguardo cinematografico, ma di uno sguardo inteso in una dimensione socio-politica-culturale molto più estesa.


Scopofilia

Scopofilia vuol dire “amore per lo sguardo”. Ma non solo. Presa in una sua accezione particolare, la scopofilia è il trarre piacere dal guardare in modo sessuale (voyeurismo). Lo sguardo sessuale è, a sua volta, influenzato dagli immaginari costruiti dalla pornografia mainstream che, attraverso il male gaze (essendo fatta da uomini per gli uomini), feticizza determinati corpi e determinate pratiche (come il lesbismo) e lз caratterizza come scopofilia, ovvero come pratiche oggetto di veduta, di piacere e di eccitazione per gli uomini.


Fat-suit

Le fat-suit sono delle tute ingrassanti che si utilizzano nei media per rendere grassa una persona “normopeso”. [2] Sono in circolazione da decenni e, nonostante le continue polemiche sul loro utilizzo, nel 2022 sono ancora in voga – pensiamo all'ultimo film con Renée Zellweger "The Thing About Pam". Tutto ciò influisce negativamente sulla rappresentazione dei corpi, dato che si continua a non ingaggiare persone (soprattutto donne) grasse e a preferire loro celebrità con corpi conformi che possono “diventare grasse” e “tornare magre” comodamente nel giro di pochi minuti. Inoltre, le fat-suit sono spesso utilizzate come motore di battute comiche e questa finalità non fa altro che perpetuare lo stigma della grassofobia con stereotipi e pregiudizi nei confronti delle persone grasse.


Blackface

Il blackface è la più antica istituzione del mondo dello spettacolo americano. Ha le sue origini negli spettacoli di menestrelli, che iniziarono a New York City negli anni '30 dell'Ottocento e guadagnarono rapidamente popolarità tra il pubblico bianco in tutto il paese. Gli artisti erano solitamente uomini bianchi che annerivano la loro pelle usando carbone o lucido da scarpe scuro, disegnavano le proprie bocche in modo buffonesco e indossavano parrucche lanose. Le loro esibizioni raffiguravano gli afroamericani come burloni pigri, ipersessualizzati e superstiziosi. Presto, gli artisti afroamericani cominciarono a indossare la faccia nera incarnando quegli stessi stereotipi dannosi. Gli spettacoli di menestrelli, alla fine, lasciarono il posto al vaudeville, [3] ma il blackface rimase un punto fermo di quel circuito di spettacoli di varietà. Con l'ascesa dell'industria cinematografica, negli anni '10 del Novecento, Hollywood si affrettò a ingaggiare attori blackface. Basti pensare a “Nascita di una nazione” (1915) di D. W. Griffith, un'epopea che glorifica il Ku Klux Klan e presenta attori per lo più bianchi in blackface che ritraggono uomini neri come predatori sessuali. [4] Fino agli anni '50 la pratica fu molto utilizzata e anche se successivamente si è affievolita non è mai scomparsa del tutto.



[Ilaria Franciotti, Luisa La Gioia]



[1] Rimandiamo, qui, al nostro primo glossario di genere: http://italianismi.it/home/glossario-di-genere-dentro-le-parole/.

[2] Virgolettiamo il termine perché ci teniamo a sottolineare che non ci riconosciamo nella norma secondo la quale esiste un peso ritenuto, per l’appunto, normale. Parlare di “normopeso” presuppone, infatti, che esistano dei pesi che si considerano anormali. Questa si chiama grassofobia.

[3] Tipo di spettacolo di varietà in voga negli Stati Uniti alla fine dell'Ottocento.

[4] Associare una presunta natura di predatori sessuali agli uomini neri è un retaggio culturale razzista risalente alla metà del Settecento, quando viene data alle stampe la decima edizione del “Systema Naturae” (1758) del naturalista Carlo Linneo. In quest'opera di classificazione degli organismi viventi, Linneo inserisce anche gli esseri umani e inventa un sistema razzista in cui li suddivide arbitrariamente in cinque razze sulla base di caratteristiche fisiche cui associa – altrettanto arbitrariamente – determinate caratteristiche comportamentali. È qui che descrive gli africani come neri, «flemmatici, furbi, indolenti e negligenti» (il maschile usato come universale non è casuale), ed è da qui che ha origine il pregiudizio razzista secondo il quale gli uomini neri siano dei predatori sessuali. Per approfondimenti: Ferrando F., 2016, “Il Postumanesimo Filosofico e le sue Alterità”, Edizioni ETS, Pisa.




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